terça-feira, 19 de março de 2013

POVERI DONNE INDIFESE ... AUMENTARE LA MISERICORDIA DI FOLLIA DI UOMINI SELVAGGI ....



 Donne indigene manifestano a Vancouver durante il 'Women's Memorial March'. Foto: Christopher Bevacqua, flickr. Donne indigene manifestano a Vancouver durante il 'Women's Memorial March'. Foto: Christopher Bevacqua, flickr.


Il rapporto "Sorelle rubate" pubblicato nel 2004 ha obbligato l'opinione pubblica canadese a prendere atto di un fatto fino ad allora taciuto: dagli anni '70 del secolo scorso ad oggi in Canada sono sparite o sono state uccise 582 donne indigene. A questa cifra andrebbero aggiunti i casi non denunciati il cui numero si stima essere ancora più alto.


Né i responsabili politici né la giustizia e nemmeno le forze dell'ordine hanno voluto commentare i risultati del rapporto. Per convincere le autorità a reagire ci sono volute le pressioni delle organizzazioni per i diritti umani e di diverse istanze delle Nazioni Unite. Nell'ottobre 2010 il governo canadese annuncia quindi un piano d'azione che però punta più a combattere i sintomi piuttosto che le cause del fenomeno.


Nella provincia della British Columbia gli atti di violenza sono particolarmente numerosi. La violenza viene esercitata sulle persone più deboli della società canadese, donne indigene che in quanto tali subiscono sia la discriminazione razziale sia quella di genere. Le donne, che nella società indigena occupavano una posizione di rispetto e anche economicamente importante, hanno perso i loro diritti con il processo di colonizzazione che le ha ridotte a semplici "oggetti (sessuali) senza valore". Vittime della violenza sono giovani donne tanto quanto donne più anziane ma la cronaca ne parla perlopiù come di ragazze tossicodipendenti o prostitute. Certo, ci sono anche loro, e non c'è da meravigliarsi se si va a vedere da vicino le condizioni di vita delle popolazioni indigene canadesi. Le riserve indiane del 21. secolo sono ancora caratterizzate dalla povertà, dalla mancanza di speranza e di prospettive future. Le città potrebbero almeno in teoria offrire qualche possibilità ma in cambio vi è anche maggiore discriminazione. I governi nazionali e provinciali autorizzano le multinazionali a sfruttare le risorse delle terre indigene e lasciano la popolazione alla povertà.


I responsabili delle violenze contro le donne vengono raramente arrestati e condannati. La polizia è male addestrata, la giustizia lenta e negligente e la politica è indifferente. Lo scorso 12 novembre il Canada ha firmato la Dichiarazione dell'ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni. Se il governo canadese intende veramente applicare i principi contenuti nella Dichiarazione allora dovrebbe dimostrarlo combattendo per prima cosa la diffusa violenza contro le donne indigene.

Monika Seiller

GUATEMALA. DONNE MAYA, DISCRIMINATE TRE VOLTE

Durante i 36 anni di genocidio (1960-1996) le donne maya erano le vittime predilette del terrore di stato contro la popolazione civile. 200.000 indigeni maya persero la vita durante quel periodo. La messa in fuga della popolazione, la tortura e lo stupro erano i mezzi usati sistematicamente per diffondere il terrore. A quindici anni dalla firma dell'accordo di pace non vi è stata alcuna seria elaborazione dei crimini commessi dalle dittature e le donne maya continuano ad essere il gruppo sociale più svantaggiato del paese. Vittime del machismo diffuso, esse subiscono il disprezzo e l'estrema violenza che si scatena contro le donne. A ciò si aggiunge la discriminazione per essere indigene. Negli ultimi dieci anni gli assassinii di donne indigene sono continuamente aumentati. La violenza colpisce per l'estrema brutalità messa in atto. Prima di essere uccise, molte donne sono state torturate, stuprate e mutilate. I corpi vengono abbandonati sui cigli delle strade o in qualche discarica. L'impunità è diffusa e le indagini che seguono il ritrovamento di un corpo sono perlopiù delle brevi farse. Le vittime sono appunto donne indigene e le autorità non hanno alcun reale interesse ad individuare e portare in tribunale gli assassini.

Anna-Lena Herkenhoff studia sociologia a Münster, ha trascorso un semestre a San Sebastián in Spagna e sta svolgendo un tirocinio presso l'APM Germania.
Perù. Centinaia di migliaia di donne indigene sterilizzate a forza durante il governo Fujimori

Secondo i dati ufficiali, durante il governo Fujimori (1990-2000) in Perù sono state sterilizzate circa 300.000 donne, prevalentemente donne quechua. I documenti in possesso dell'ufficio nazionale per i diritti umani dimostrano che almeno 2.074 donne sono state sterilizzate contro la loro volontà. Molte non sapevano cosa le avrebbero fatto durante l'intervento oppure non erano state informate delle conseguenze. Altre ancora sono state minacciate di non ricevere più alcun trattamento medico se non avessero acconsentito all'intervento. Secondo le stime solo il dieci per cento delle donne avrebbe autorizzato l'intervento in seguito alla promessa di cibo, medicinali o soldi. Decine di donne sono morte durante l'intervento per le catastrofiche condizioni sanitarie nelle sale operatorie.

Allora il personale sanitario statale era costretto a sterilizzare mensilmente un numero fisso di donne stabilito dal ministero della sanità. I fondi necessari alla realizzazione del programma di sterilizzazione forzata arrivavano da finanziatori internazionali come il Fondo delle Nazione Unite per la Popolazione (UNFPA) e l'organizzazione per la cooperazione statunitense USAID.

Ciò nonostante nel maggio 2009 il pubblico ministero peruviano incaricato delle violazioni dei diritti umani Jaime Schwartz ha negato l'autorizzazione a procedere contro quattro ministri dell'allora governo Fujimori. I casi, così il pubblico ministero, non rappresentavano violazioni dei diritti umani ma reati contro il corpo, la vita e la salute e casi di omicidio e in quanto tali ormai caduti in prescrizione. La decisione del pubblico ministero fu confermata dalla procura nonostante l'istanza giudiziaria fosse stata presentata come caso di genocidio e di tortura e nonostante le forti proteste delle organizzazioni per i diritti umani. L'associazione delle donne forzatamente sterilizzate della provincia andina di Anta intende ora rompere l'impunità presentando una nuova istanza giudiziaria basata sulle testimonianze di circa 100 contadine quechua. Le donne sono sostenute dalla parlamentare quechua Hilaria Supa, la cui figlia fu a sua volta vittima del programma di sterilizzazioni forzate.

Yvonne Bangert è referente dell'APM per gli affari indigeni.

SERBIA
II MOVIMENTO DI PACE "DONNE IN NERO"

Jasna Causevic

In Serbia le 'donne in nero' lavorano da 20 anni per la pace, la riconciliazione e la condanna dei criminali di guerra. In Serbia le 'donne in nero' lavorano da 20 anni per la pace, la riconciliazione e la condanna dei criminali di guerra.

Il movimento di pace serbo "Donne in nero" è stato fondato il 9 ottobre 1991 come protesta alla politica di guerra serba. Il movimento serbo è stato creato sul modello dell'omonima organizzazione fondata in Israele che dal 1988 organizza presidi contro il conflitto israelo-palestinese. 20 anni dopo, il movimento internazionale conta attiviste di ogni nazionalità, età, religione, credo ed estrazione sociale.

Negli anni della guerra dal 1991 al 1995 la rete serba costituiva un riferimento per tutti gli obiettori di coscienza, disertori e loro parenti e aiutava profughi e vittime di guerra. Oggi le Donne in Nero si impegnano per la cattura dei criminali di guerra e la loro condanna tramite tribunali nazionali e la Corte internazionale per i crimini di guerra all'Aia (ICTY).

Durante tutta la guerra in Bosnia le Donne in Nero e la loro presidentessa Staša Zajovic si sono opposte pubblicamente al clima di odio fomentato dal regime di Slobodan Milosevic senza farsi intimidire da diffamazioni e accuse che le definivano "una vergogna per la Serbia e il popolo serbo". In cambio le donne hanno sempre chiesto l'incondizionata persecuzione dei criminali di guerra e si sono appellate all'elite culturale serba affinché si assumesse la responsabilità morale sia per le guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo sia per i crimini di guerra commessi nei Balcani occidentali. All'ideale maschile dei nazionalisti serbi esse hanno contrapposto un pacifismo senza compromessi.

A partire dagli anni 90 le Donne in Nero hanno continuato a organizzare presidi nonviolenti, tanto da avere al loro attivo più di mille manifestazioni, azioni e presidi. Per rendere più efficace la loro azione, le Donne in Nero organizzano corsi di formazione e laboratori per le loro attiviste, conferenze e dibattiti pubblici.


Il contatto con altri gruppi pacifisti e di donne in patria e all'estero è molto importante per le Donne in nero. L'organizzazione ha infatti ottimi rapporti con il Centro per donne e per la formazione di donne di Kotor (Montenegro), con il Centro per le donne vittime di guerra di Zagabria (Croazia), con l'Associazione Donne per le Donne di Sarajevo e con la Fondazione CURE di Sarajevo, con l'associazione "Donne di Srebrenica" di Tuzla (Bosnia Erzegovina) e con la rete di organizzazioni di donne del Kosovo. Grazie alle loro iniziative e alla loro presenza nei Balcani le Donne in nero sono diventate un'importante componente del locale movimento pacifista nonché della rete di organizzazioni pacifiste di donne di tutto il mondo.

Per ulteriori informazioni: www.zeneucrnom.org

Felicia Langer è un'avvocatessa israeliana a difesa dei Palestinesi [ su ]
"Il ponte esiste davvero"

Felicia Langer: 'Non posso vivere con le ingiustizie senza far niente per combatterle'. Foto: UNiesert (Wikimedia Commons). Felicia Langer: 'Non posso vivere con le ingiustizie senza far niente per combatterle'. Foto: UNiesert (Wikimedia Commons).

APM: Quale dei molti premi vinti riveste maggiore significato per Lei?
Felicia Langer: L'aver ricevuto il Premio Nobel alternativo, il premio più importante dopo il Premio Nobel, è stato un bel riconoscimento.

APM: Nel 1950 Lei è migrata insieme a suo marito in Israele dove poi ha studiato giurisprudenza. Come ha vissuto l'inizio della sua carriera professionale in un regno ancora tutto maschile?
F.L.: Ho dovuto impormi, essere sempre la migliore. Questo mi è rimasto dentro. Non è sempre stato facile. Dal 1965 al 1967 ho difeso gente povera ed esclusa. Certo, non ci ho guadagnato ma ne ho tratto molta soddisfazione.

APM: Come hanno reagito i suoi clienti palestinesi a Lei, come donna?
F.L.: All'epoca ero l'unica a difendere dei Palestinesi sulla base della solidarietà e della comprensione. Forse cercavano dell'empatia. Il mio primo cliente è stato un Imam. Venne con sua moglie, il loro figlio era in carcere. Avevano ricevuto recapitata la camicia del figlio macchiata di sangue e quindi sapevano che era stato picchiato. In quel momento mi sono sentita come sua madre e piangevo insieme ai genitori. In questo modo è crollato il muro tra di noi. Credo che quando esiste partecipazione, comprensione e vera solidarietà, la questione di genere diventa secondaria.

APM: Come ha iniziato ad essere conosciuta come avvocato per i diritti umani?
F.L.: E' stato un processo. Ero una donna, un'Israeliana e difendevo Palestinesi - terroristi, continuava a rinfacciarmi la gente. Ma ciò non è giusto perché non ho mai difeso chi ha perseguitato dei civili. Ma insieme alla fama è arrivato talmente tanto odio che anche questo ha contribuito alla mia notorietà. A un certo punto ho addirittura avuto bisogno di una guardia del corpo.

APM: Come è stata trattata dai suoi colleghi maschi?
F. L.: Coloro che hanno capito che per noi è un dovere difendere i Palestinesi in questa situazione di arbitrarietà mi hanno mostrato molta simpatia. Altri invece non riuscivano a nascondere il loro odio e questo mi ha fatto soffrire parecchio.

APM: Per quale motivo ha reso l'impegno per i Palestinesi il compito della sua vita?
F. L.: Lotto perché i Palestinesi vengono spogliati dei loro diritti e soffrono. Questa è un'occupazione crudele e colonizzatrice. Non posso vivere accanto all'ingiustizia senza fare niente.

APM: Perché ha lasciato Israele nel 1990?
F. L.: A partire dal 1987 mi sono resa conto che il mio lavoro era inutile. Il sistema giuridico israeliano è una farsa. Ero addirittura diventata un alibi per un brutto sistema. L'élite israeliana si vantava "abbiamo Felicia Langer! In Giordania o in Egitto non esiste nessuna Felicia Langer!" e così mi sono detta: "no, non voglio stare a questo gioco!" Per protesta ho chiuso il mio ufficio e ho reso pubblico questo mio passo. Anche il Washington Post ne ha parlato.

APM: Per quale motivo ha scelto la Germania come nuova residenza?
F. L.: Ho ricevuto un incarico per l'insegnamento all'università di Brema. In questo modo potevo portare avanti il mio lavoro per la pace e la giustizia, anche se in modo diverso.

APM: Nel 1998 la rivista israeliana "You" la annoverava tra le 50 donne più importanti della società israeliana ...
F. L.: Sì, per me è stato come un riconoscimento. Tardivo, ma importante!

APM: E' riuscita a raggiungere l'obiettivo della sua vita di creare un ponte tra Palestinesi e Israeliani?
F.L.: Se guardo a ritroso tutta la mia vita allora posso dire che questo ponte esiste davvero. Ancora oggi ricevo telefonate e riconoscimenti. Ci sono ragazze che in mio onore sono state chiamate Felicia. Ciò mi dimostra che basta costruirlo un ponte affinché continui a esistere.

Felicia Langer è ebrea di origine polacca. Nel 1949 sposa Mieciu Langer, sopravvissuto a cinque campi di concentramento. Nel 1950 la coppia migra in Israele dove nasce il loro figlio. Nel 1959 Felicia inizia a studiare giurisprudenza. A partire dalla Guerra dei sei Giorni (1967) difende Palestinesi davanti ai tribunali militari israeliani raggiungendo una notorietà che travalica le frontiere israeliane. Ha scritto numerosi libri. Nel 1990 chiude il suo studio e con il marito si trasferisce in Germania.

Alina Treiger, donna-rabbino [ su ]
Figura simbolo dell'ebraismo liberale

Hanno Schedler

In tutto il mondo ci sono 900 donne rabbino. Una di queste è Alina Treiger che nonostante i suoi 31 anni ha già avuto una vita movimentata. E' la prima donna ad essere ordinata rabbino in Germania dopo l'olocausto e prima di lei in Germania ci fu una sola donna rabbino: Regina Jonas.

Alina Treiger è stata ordinata rabbino nel novembre 2010. Foto: Matthias Süßen (Wikimedia Commons). Alina Treiger è stata ordinata rabbino nel novembre 2010. Foto: Matthias Süßen (Wikimedia Commons).


Regina Jonas nacque nel 1902 e terminò i suoi studi nel 1930 ma solo cinque anni dopo trovò un rabbino liberale che la ordinò a sua volta rabbino. Negli anni successivi lavorò come insegnante e come assistente spirituale in un ospedale ebraico di Berlino. Nel 1942 fu deportata nel campo di concentramento di Theresienstadt dove assieme allo psicoanalista viennese Viktor Frankl, anch'egli deportato, assistette gli altri detenuti per evitare che si suicidassero. Nell'ottobre 1944 la Jonas fu trasferita ad Auschwitz e assassinata, probabilmente il 12 dicembre 1944.

Alina Treiger è nata nel 1979 nella città ucraina di Poltava. Già da giovane era consapevole delle sue origini ebraiche nonostante a Poltava non vi fosse nessuna sinagoga e nemmeno una comunità ebraica. Il regime comunista proibì al padre Phula di studiare ma poiché la madre non era ebrea, Alina crebbe laica e si convertì all'ebraismo solo successivamente. Dopo il crollo del regime sovietico la Treiger conobbe altri ebrei e fondò un club giovanile ebraico. Inseritasi nel dominante ebraismo ortodosso, si trovò in disaccordo con il ruolo riservato alle donne e passò quindi all'ebraismo liberale. Inizialmente aveva iniziato a studiare musica ma nel 1998, dopo un viaggio di nove giorni in Israele, sentì che la religione era la sua vocazione. L'Unione mondiale dell'ebraismo progressista (World Union of Progressive Judaism, WUPJ) le rese possibile prima una formazione come assistente comunitaria a Mosca e poi le offrì la possibilità di studiare in Germania. Il 7 luglio 2001 Alina Treiger raggiunse Berlino, munita solo del suo visto per motivi di studio presso il collegio Abraham-Geiger dell'università di Potsdam, una piccola valigia e nessuna conoscenza del tedesco. Lo scorso 4 novembre Alina Geiger è stata ordinata rabbino nella sinagoga in via Pestalozzi a Berlino/Charlottenburg, alla presenza del presidente federale tedesco Christian Wulff e dell'allora presidentessa del Consiglio centrale Ebraico in Germania Charlotte Knobloch. L'evento è stato ripreso da buona parte della stampa internazionale. Alla BBC Alina Treiger aveva dichiarato: "Non sono stata io a scegliere questo lavoro, è stato il lavoro a sceglier me".


Ora Alina Treiger assiste le comunità di Oldenburg e Delmenhorst dove una buona parte dei circa 500 credenti proviene dall'ex-Unione Sovietica. Per Alina Treiger è un vantaggio poter trasmettere la propria fede anche in ucraino o russo a tutti coloro che ancora non parlano bene il tedesco e che a causa del periodo comunista hanno poca dimestichezza con la propria religione.

L'ebraismo liberale
L'ebraismo liberale affonda le sue radici principalmente nella Germania del 18esimo e 19esimo secolo e si basa tra l'altro sulle concezioni di Moses Mendelssohn, Israel Jacobsohn e Abraham Geiger. La corrente liberale interpreta la rivelazione non come atto unico, durante il quale Mosé ricevette da Dio letteralmente la Thora (l'insegnamento scritto) e tutte le interpretazioni (l'insegnamento orale, poi trascritto nel Talmud), ma come un processo dinamico tutt'ora in corso che parte da Dio ed è mediato dall'uomo. Nell'ebraismo liberale vige la completa equiparazione tra uomo e donna in tutti gli aspetti religiosi.

ATTIVISTA KURDA PER I DIRRITI UMANI IN TURCHIA 
Leyla Zana: "Noi Kurdi dobbiamo essere uniti"

Ciò che segue sono spezzoni di un discorso pronunciato dall'attivista per i diritti umani kurda Leyla Zana durante il primo congresso delle donne kurde della Turchia, dell'Iraq, dell'Iran, della Siria, in Europa e dei paesi della Comunità di Stati Indipendenti (CSI), tenuto in aprile 2010 a Diyarbakir (Turchia). Tra le varie esperienze di vita, Leyla Zana ha trascorso undici anni in carcere per aver utilizzato la sua lingua, il kurdo, al parlamento turco.

A partire da [gli accordi di] Qasr-e-Shirin [1639] e Losanna [1923] che hanno diviso la terra kurda, le nostre donne [kurde] hanno subíto la persecuzione politica, culturale e religiosa nonché lo sfruttamento economico. E' per questo che dobbiamo impegnarci con particolare forza per creare una società pacifica, democratica e con pari diritti tra uomini e donne.

Questa conferenza non serve solo a parlare delle ingiustizie nei confronti delle donne e delle limitazioni che subiscono. Bisogna affrontare anche temi quali la lapidazione, la mutilazione genitale femminile, la vendetta d'onore, i matrimoni obbligati, la violenza sessuale, lo stupro e il divieto all'utilizzo della propria lingua. Tutti questi sono problemi quotidiani e attuali a cui dobbiamo dedicarci. Anche se non sarà possibile trovare delle soluzioni dall'oggi al domani, credo che noi, in quanto vittime e sostenitrici di altre vittime, potremmo ottenere l'attenzione dell'opinione pubblica. D'ora in poi dobbiamo lavorare insieme in modo organizzato per affrontare queste tematiche.

Le donne kurde lottano sia per i loro diritti di donne sia per la libertà e l'identità nazionale dei Kurdi. Quindi la voce della donna kurda è spesso la voce degli oppressi e dei senza-voce. Le donne kurde che vivono in Kurdistan e nella diaspora oggi si riuniscono per la prima volta. Vediamo che molti paesi e molte nazioni tentano di costruire delle relazioni con i Kurdi. Se noi Kurdi comunicassimo in modo aperto e sincero tra di noi allora potremmo creare un dialogo migliore anche con i paesi nostri vicini. Finché i Kurdi non riescono a mettersi d'accordo tra di loro, non potremmo contare sulla solidarietà degli altri. Senza solidarietà non vi è unità e senza unità non c'è forza, e senza forza non vi potrà essere una pace sicura!

[Traduzione del discorso originale di Cigdem Cagirigi. Versione italiana di Sabrina Bussani].

'Madri del sabato' a Diyarbarkir. Foto: Ahmet Ün. 'Madri del sabato' a Diyarbarkir. Foto: Ahmet Ün.
Donne indigene manifestano a Vancouver durante il 'Women's Memorial March'. Foto: Christopher Bevacqua, flickr. Donne indigene manifestano a Vancouver durante il 'Women's Memorial March'. Foto: Christopher Bevacqua, flickr.

Il rapporto "Sorelle rubate" pubblicato nel 2004 ha obbligato l'opinione pubblica canadese a prendere atto di un fatto fino ad allora taciuto: dagli anni '70 del secolo scorso ad oggi in Canada sono sparite o sono state uccise 582 donne indigene. A questa cifra andrebbero aggiunti i casi non denunciati il cui numero si stima essere ancora più alto.

Né i responsabili politici né la giustizia e nemmeno le forze dell'ordine hanno voluto commentare i risultati del rapporto. Per convincere le autorità a reagire ci sono volute le pressioni delle organizzazioni per i diritti umani e di diverse istanze delle Nazioni Unite. Nell'ottobre 2010 il governo canadese annuncia quindi un piano d'azione che però punta più a combattere i sintomi piuttosto che le cause del fenomeno.

Nella provincia della British Columbia gli atti di violenza sono particolarmente numerosi. La violenza viene esercitata sulle persone più deboli della società canadese, donne indigene che in quanto tali subiscono sia la discriminazione razziale sia quella di genere. Le donne, che nella società indigena occupavano una posizione di rispetto e anche economicamente importante, hanno perso i loro diritti con il processo di colonizzazione che le ha ridotte a semplici "oggetti (sessuali) senza valore". Vittime della violenza sono giovani donne tanto quanto donne più anziane ma la cronaca ne parla perlopiù come di ragazze tossicodipendenti o prostitute. Certo, ci sono anche loro, e non c'è da meravigliarsi se si va a vedere da vicino le condizioni di vita delle popolazioni indigene canadesi. Le riserve indiane del 21. secolo sono ancora caratterizzate dalla povertà, dalla mancanza di speranza e di prospettive future. Le città potrebbero almeno in teoria offrire qualche possibilità ma in cambio vi è anche maggiore discriminazione. I governi nazionali e provinciali autorizzano le multinazionali a sfruttare le risorse delle terre indigene e lasciano la popolazione alla povertà.

I responsabili delle violenze contro le donne vengono raramente arrestati e condannati. La polizia è male addestrata, la giustizia lenta e negligente e la politica è indifferente. Lo scorso 12 novembre il Canada ha firmato la Dichiarazione dell'ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni. Se il governo canadese intende veramente applicare i principi contenuti nella Dichiarazione allora dovrebbe dimostrarlo combattendo per prima cosa la diffusa violenza contro le donne indigene.

Monika Seiller

GUATEMALA.  DONNE MAYA DISCRIMINATE TRE VOLTE

Durante i 36 anni di genocidio (1960-1996) le donne maya erano le vittime predilette del terrore di stato contro la popolazione civile. 200.000 indigeni maya persero la vita durante quel periodo. La messa in fuga della popolazione, la tortura e lo stupro erano i mezzi usati sistematicamente per diffondere il terrore. A quindici anni dalla firma dell'accordo di pace non vi è stata alcuna seria elaborazione dei crimini commessi dalle dittature e le donne maya continuano ad essere il gruppo sociale più svantaggiato del paese. Vittime del machismo diffuso, esse subiscono il disprezzo e l'estrema violenza che si scatena contro le donne. A ciò si aggiunge la discriminazione per essere indigene. Negli ultimi dieci anni gli assassinii di donne indigene sono continuamente aumentati. La violenza colpisce per l'estrema brutalità messa in atto. Prima di essere uccise, molte donne sono state torturate, stuprate e mutilate. I corpi vengono abbandonati sui cigli delle strade o in qualche discarica. L'impunità è diffusa e le indagini che seguono il ritrovamento di un corpo sono perlopiù delle brevi farse. Le vittime sono appunto donne indigene e le autorità non hanno alcun reale interesse ad individuare e portare in tribunale gli assassini.

Anna-Lena Herkenhoff studia sociologia a Münster, ha trascorso un semestre a San Sebastián in Spagna e sta svolgendo un tirocinio presso l'APM Germania.

PERÚ. CENTINAIA DI MIGLIAIA DI DONNE INDIGINE STERILLIZATE A FORZA DURANTE IL GOVERNO FUJIMORI

Secondo i dati ufficiali, durante il governo Fujimori (1990-2000) in Perù sono state sterilizzate circa 300.000 donne, prevalentemente donne quechua. I documenti in possesso dell'ufficio nazionale per i diritti umani dimostrano che almeno 2.074 donne sono state sterilizzate contro la loro volontà. Molte non sapevano cosa le avrebbero fatto durante l'intervento oppure non erano state informate delle conseguenze. Altre ancora sono state minacciate di non ricevere più alcun trattamento medico se non avessero acconsentito all'intervento. Secondo le stime solo il dieci per cento delle donne avrebbe autorizzato l'intervento in seguito alla promessa di cibo, medicinali o soldi. Decine di donne sono morte durante l'intervento per le catastrofiche condizioni sanitarie nelle sale operatorie.

Allora il personale sanitario statale era costretto a sterilizzare mensilmente un numero fisso di donne stabilito dal ministero della sanità. I fondi necessari alla realizzazione del programma di sterilizzazione forzata arrivavano da finanziatori internazionali come il Fondo delle Nazione Unite per la Popolazione (UNFPA) e l'organizzazione per la cooperazione statunitense USAID.

Ciò nonostante nel maggio 2009 il pubblico ministero peruviano incaricato delle violazioni dei diritti umani Jaime Schwartz ha negato l'autorizzazione a procedere contro quattro ministri dell'allora governo Fujimori. I casi, così il pubblico ministero, non rappresentavano violazioni dei diritti umani ma reati contro il corpo, la vita e la salute e casi di omicidio e in quanto tali ormai caduti in prescrizione. La decisione del pubblico ministero fu confermata dalla procura nonostante l'istanza giudiziaria fosse stata presentata come caso di genocidio e di tortura e nonostante le forti proteste delle organizzazioni per i diritti umani. L'associazione delle donne forzatamente sterilizzate della provincia andina di Anta intende ora rompere l'impunità presentando una nuova istanza giudiziaria basata sulle testimonianze di circa 100 contadine quechua. Le donne sono sostenute dalla parlamentare quechua Hilaria Supa, la cui figlia fu a sua volta vittima del programma di sterilizzazioni forzate.

Yvonne Bangert è referente dell'APM per gli affari indigeni.

SERBIA Il MOVIMENTO DI PACE "DONNE IN NERO"

Jasna Causevic


In Serbia le 'donne in nero' lavorano da 20 anni per la pace, la riconciliazione e la condanna dei criminali di guerra. In Serbia le 'donne in nero' lavorano da 20 anni per la pace, la riconciliazione e la condanna dei criminali di guerra.

Il movimento di pace serbo "Donne in nero" è stato fondato il 9 ottobre 1991 come protesta alla politica di guerra serba. Il movimento serbo è stato creato sul modello dell'omonima organizzazione fondata in Israele che dal 1988 organizza presidi contro il conflitto israelo-palestinese. 20 anni dopo, il movimento internazionale conta attiviste di ogni nazionalità, età, religione, credo ed estrazione sociale.

Negli anni della guerra dal 1991 al 1995 la rete serba costituiva un riferimento per tutti gli obiettori di coscienza, disertori e loro parenti e aiutava profughi e vittime di guerra. Oggi le Donne in Nero si impegnano per la cattura dei criminali di guerra e la loro condanna tramite tribunali nazionali e la Corte internazionale per i crimini di guerra all'Aia (ICTY).

Durante tutta la guerra in Bosnia le Donne in Nero e la loro presidentessa Staša Zajovic si sono opposte pubblicamente al clima di odio fomentato dal regime di Slobodan Milosevic senza farsi intimidire da diffamazioni e accuse che le definivano "una vergogna per la Serbia e il popolo serbo". In cambio le donne hanno sempre chiesto l'incondizionata persecuzione dei criminali di guerra e si sono appellate all'elite culturale serba affinché si assumesse la responsabilità morale sia per le guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo sia per i crimini di guerra commessi nei Balcani occidentali. All'ideale maschile dei nazionalisti serbi esse hanno contrapposto un pacifismo senza compromessi.

A partire dagli anni 90 le Donne in Nero hanno continuato a organizzare presidi nonviolenti, tanto da avere al loro attivo più di mille manifestazioni, azioni e presidi. Per rendere più efficace la loro azione, le Donne in Nero organizzano corsi di formazione e laboratori per le loro attiviste, conferenze e dibattiti pubblici.

Il contatto con altri gruppi pacifisti e di donne in patria e all'estero è molto importante per le Donne in nero. L'organizzazione ha infatti ottimi rapporti con il Centro per donne e per la formazione di donne di Kotor (Montenegro), con il Centro per le donne vittime di guerra di Zagabria (Croazia), con l'Associazione Donne per le Donne di Sarajevo e con la Fondazione CURE di Sarajevo, con l'associazione "Donne di Srebrenica" di Tuzla (Bosnia Erzegovina) e con la rete di organizzazioni di donne del Kosovo. Grazie alle loro iniziative e alla loro presenza nei Balcani le Donne in nero sono diventate un'importante componente del locale movimento pacifista nonché della rete di organizzazioni pacifiste di donne di tutto il mondo.

Per ulteriori informazioni: www.zeneucrnom.org

FELICIA LANGER ÈUN''AVVOCATTEZA ISRAELIANA A DIFESA DEI PALESTINESI
"IL PONTE ESISTE DAVVERO"

Felicia Langer: 'Non posso vivere con le ingiustizie senza far niente per combatterle'. Foto: UNiesert (Wikimedia Commons). Felicia Langer: 'Non posso vivere con le ingiustizie senza far niente per combatterle'. Foto: UNiesert (Wikimedia Commons).

APM: Quale dei molti premi vinti riveste maggiore significato per Lei?
Felicia Langer: L'aver ricevuto il Premio Nobel alternativo, il premio più importante dopo il Premio Nobel, è stato un bel riconoscimento.

APM: Nel 1950 Lei è migrata insieme a suo marito in Israele dove poi ha studiato giurisprudenza. Come ha vissuto l'inizio della sua carriera professionale in un regno ancora tutto maschile?
F.L.: Ho dovuto impormi, essere sempre la migliore. Questo mi è rimasto dentro. Non è sempre stato facile. Dal 1965 al 1967 ho difeso gente povera ed esclusa. Certo, non ci ho guadagnato ma ne ho tratto molta soddisfazione.

APM: Come hanno reagito i suoi clienti palestinesi a Lei, come donna?
F.L.: All'epoca ero l'unica a difendere dei Palestinesi sulla base della solidarietà e della comprensione. Forse cercavano dell'empatia. Il mio primo cliente è stato un Imam. Venne con sua moglie, il loro figlio era in carcere. Avevano ricevuto recapitata la camicia del figlio macchiata di sangue e quindi sapevano che era stato picchiato. In quel momento mi sono sentita come sua madre e piangevo insieme ai genitori. In questo modo è crollato il muro tra di noi. Credo che quando esiste partecipazione, comprensione e vera solidarietà, la questione di genere diventa secondaria.

APM: Come ha iniziato ad essere conosciuta come avvocato per i diritti umani?
F.L.: E' stato un processo. Ero una donna, un'Israeliana e difendevo Palestinesi - terroristi, continuava a rinfacciarmi la gente. Ma ciò non è giusto perché non ho mai difeso chi ha perseguitato dei civili. Ma insieme alla fama è arrivato talmente tanto odio che anche questo ha contribuito alla mia notorietà. A un certo punto ho addirittura avuto bisogno di una guardia del corpo.

APM: Come è stata trattata dai suoi colleghi maschi?
F. L.: Coloro che hanno capito che per noi è un dovere difendere i Palestinesi in questa situazione di arbitrarietà mi hanno mostrato molta simpatia. Altri invece non riuscivano a nascondere il loro odio e questo mi ha fatto soffrire parecchio.

APM: Per quale motivo ha reso l'impegno per i Palestinesi il compito della sua vita?
F. L.: Lotto perché i Palestinesi vengono spogliati dei loro diritti e soffrono. Questa è un'occupazione crudele e colonizzatrice. Non posso vivere accanto all'ingiustizia senza fare niente.

APM: Perché ha lasciato Israele nel 1990?
F. L.: A partire dal 1987 mi sono resa conto che il mio lavoro era inutile. Il sistema giuridico israeliano è una farsa. Ero addirittura diventata un alibi per un brutto sistema. L'élite israeliana si vantava "abbiamo Felicia Langer! In Giordania o in Egitto non esiste nessuna Felicia Langer!" e così mi sono detta: "no, non voglio stare a questo gioco!" Per protesta ho chiuso il mio ufficio e ho reso pubblico questo mio passo. Anche il Washington Post ne ha parlato.

APM: Per quale motivo ha scelto la Germania come nuova residenza?
F. L.: Ho ricevuto un incarico per l'insegnamento all'università di Brema. In questo modo potevo portare avanti il mio lavoro per la pace e la giustizia, anche se in modo diverso.

APM: Nel 1998 la rivista israeliana "You" la annoverava tra le 50 donne più importanti della società israeliana ...
F. L.: Sì, per me è stato come un riconoscimento. Tardivo, ma importante!

APM: E' riuscita a raggiungere l'obiettivo della sua vita di creare un ponte tra Palestinesi e Israeliani?
F.L.: Se guardo a ritroso tutta la mia vita allora posso dire che questo ponte esiste davvero. Ancora oggi ricevo telefonate e riconoscimenti. Ci sono ragazze che in mio onore sono state chiamate Felicia. Ciò mi dimostra che basta costruirlo un ponte affinché continui a esistere.

Felicia Langer è ebrea di origine polacca. Nel 1949 sposa Mieciu Langer, sopravvissuto a cinque campi di concentramento. Nel 1950 la coppia migra in Israele dove nasce il loro figlio. Nel 1959 Felicia inizia a studiare giurisprudenza. A partire dalla Guerra dei sei Giorni (1967) difende Palestinesi davanti ai tribunali militari israeliani raggiungendo una notorietà che travalica le frontiere israeliane. Ha scritto numerosi libri. Nel 1990 chiude il suo studio e con il marito si trasferisce in Germania.

ALINA TREIGER, DONNA RABBINO
Figura simbolo dell'ebraismo liberale

Hanno Schedler

In tutto il mondo ci sono 900 donne rabbino. Una di queste è Alina Treiger che nonostante i suoi 31 anni ha già avuto una vita movimentata. E' la prima donna ad essere ordinata rabbino in Germania dopo l'olocausto e prima di lei in Germania ci fu una sola donna rabbino: Regina Jonas
.


Alina Treiger è stata ordinata rabbino nel novembre 2010. Foto: Matthias Süßen (Wikimedia Commons). Alina Treiger è stata ordinata rabbino nel novembre 2010. Foto: Matthias Süßen (Wikimedia Commons).

Regina Jonas nacque nel 1902 e terminò i suoi studi nel 1930 ma solo cinque anni dopo trovò un rabbino liberale che la ordinò a sua volta rabbino. Negli anni successivi lavorò come insegnante e come assistente spirituale in un ospedale ebraico di Berlino. Nel 1942 fu deportata nel campo di concentramento di Theresienstadt dove assieme allo psicoanalista viennese Viktor Frankl, anch'egli deportato, assistette gli altri detenuti per evitare che si suicidassero. Nell'ottobre 1944 la Jonas fu trasferita ad Auschwitz e assassinata, probabilmente il 12 dicembre 1944.

Alina Treiger è nata nel 1979 nella città ucraina di Poltava. Già da giovane era consapevole delle sue origini ebraiche nonostante a Poltava non vi fosse nessuna sinagoga e nemmeno una comunità ebraica. Il regime comunista proibì al padre Phula di studiare ma poiché la madre non era ebrea, Alina crebbe laica e si convertì all'ebraismo solo successivamente. Dopo il crollo del regime sovietico la Treiger conobbe altri ebrei e fondò un club giovanile ebraico. Inseritasi nel dominante ebraismo ortodosso, si trovò in disaccordo con il ruolo riservato alle donne e passò quindi all'ebraismo liberale. Inizialmente aveva iniziato a studiare musica ma nel 1998, dopo un viaggio di nove giorni in Israele, sentì che la religione era la sua vocazione. L'Unione mondiale dell'ebraismo progressista (World Union of Progressive Judaism, WUPJ) le rese possibile prima una formazione come assistente comunitaria a Mosca e poi le offrì la possibilità di studiare in Germania. Il 7 luglio 2001 Alina Treiger raggiunse Berlino, munita solo del suo visto per motivi di studio presso il collegio Abraham-Geiger dell'università di Potsdam, una piccola valigia e nessuna conoscenza del tedesco. Lo scorso 4 novembre Alina Geiger è stata ordinata rabbino nella sinagoga in via Pestalozzi a Berlino/Charlottenburg, alla presenza del presidente federale tedesco Christian Wulff e dell'allora presidentessa del Consiglio centrale Ebraico in Germania Charlotte Knobloch. L'evento è stato ripreso da buona parte della stampa internazionale. Alla BBC Alina Treiger aveva dichiarato: "Non sono stata io a scegliere questo lavoro, è stato il lavoro a sceglier me".

Ora Alina Treiger assiste le comunità di Oldenburg e Delmenhorst dove una buona parte dei circa 500 credenti proviene dall'ex-Unione Sovietica. Per Alina Treiger è un vantaggio poter trasmettere la propria fede anche in ucraino o russo a tutti coloro che ancora non parlano bene il tedesco e che a causa del periodo comunista hanno poca dimestichezza con la propria religione.

L'ebraismo liberale
L'ebraismo liberale affonda le sue radici principalmente nella Germania del 18esimo e 19esimo secolo e si basa tra l'altro sulle concezioni di Moses Mendelssohn, Israel Jacobsohn e Abraham Geiger. La corrente liberale interpreta la rivelazione non come atto unico, durante il quale Mosé ricevette da Dio letteralmente la Thora (l'insegnamento scritto) e tutte le interpretazioni (l'insegnamento orale, poi trascritto nel Talmud), ma come un processo dinamico tutt'ora in corso che parte da Dio ed è mediato dall'uomo. Nell'ebraismo liberale vige la completa equiparazione tra uomo e donna in tutti gli aspetti religiosi.

Attivista kurda per i diritti umani in Turchia [ su ]
Leyla Zana: "Noi Kurdi dobbiamo essere uniti"

Ciò che segue sono spezzoni di un discorso pronunciato dall'attivista per i diritti umani kurda Leyla Zana durante il primo congresso delle donne kurde della Turchia, dell'Iraq, dell'Iran, della Siria, in Europa e dei paesi della Comunità di Stati Indipendenti (CSI), tenuto in aprile 2010 a Diyarbakir (Turchia). Tra le varie esperienze di vita, Leyla Zana ha trascorso undici anni in carcere per aver utilizzato la sua lingua, il kurdo, al parlamento turco.

A partire da [gli accordi di] Qasr-e-Shirin [1639] e Losanna [1923] che hanno diviso la terra kurda, le nostre donne [kurde] hanno subíto la persecuzione politica, culturale e religiosa nonché lo sfruttamento economico. E' per questo che dobbiamo impegnarci con particolare forza per creare una società pacifica, democratica e con pari diritti tra uomini e donne.

Questa conferenza non serve solo a parlare delle ingiustizie nei confronti delle donne e delle limitazioni che subiscono. Bisogna affrontare anche temi quali la lapidazione, la mutilazione genitale femminile, la vendetta d'onore, i matrimoni obbligati, la violenza sessuale, lo stupro e il divieto all'utilizzo della propria lingua. Tutti questi sono problemi quotidiani e attuali a cui dobbiamo dedicarci. Anche se non sarà possibile trovare delle soluzioni dall'oggi al domani, credo che noi, in quanto vittime e sostenitrici di altre vittime, potremmo ottenere l'attenzione dell'opinione pubblica. D'ora in poi dobbiamo lavorare insieme in modo organizzato per affrontare queste tematiche.

Le donne kurde lottano sia per i loro diritti di donne sia per la libertà e l'identità nazionale dei Kurdi. Quindi la voce della donna kurda è spesso la voce degli oppressi e dei senza-voce. Le donne kurde che vivono in Kurdistan e nella diaspora oggi si riuniscono per la prima volta. Vediamo che molti paesi e molte nazioni tentano di costruire delle relazioni con i Kurdi. Se noi Kurdi comunicassimo in modo aperto e sincero tra di noi allora potremmo creare un dialogo migliore anche con i paesi nostri vicini. Finché i Kurdi non riescono a mettersi d'accordo tra di loro, non potremmo contare sulla solidarietà degli altri. Senza solidarietà non vi è unità e senza unità non c'è forza, e senza forza non vi potrà essere una pace sicura!

[Traduzione del discorso originale di Cigdem Cagirigi. Versione italiana di Sabrina Bussani].

'Madri del sabato' a Diyarbarkir. Foto: Ahmet Ün. 'Madri del sabato' a Diyarbarkir. Foto: Ahmet Ün.

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