terça-feira, 29 de abril de 2014

LA STORIA DI KEBRAT



Il tempo passa. Va oltre. Non si ferma mai. Il tempo è l' unità di misura, che noi umani abbiamo inventato per definirci e definire ciò che siamo. Diciamo anche, che esso nel suo trascorrere lenisce le ferite, i ricordi, i fatti. La memoria, invece è il "trucco" per fermare il suo scorrere e da esso trarre insegnamento. La storia umana è il passato, un passato remoto o prossimo e più vicino a noi, ma comunque  volontariamente o involontariamente abbiamo conosciuto.

A volte la micidiale indifferenza, sorella dell' egoismo, che tutto avvolge nella mente come una impenetrabile nebbia ci allontana da un sentimento di condivisione. Qui riporto una storia umana come molte altre a cui temo ne stiamo facendo l' abitudine. Nei giorni del grande naufragio di immigrati (3 ottobre 2013), al largo di Lampedusa fu coinvolta anche Kebrat, una giovane eritrea.
 
 Qui più avanti riporto qualche stralcio di articoli di quei giorni. Sarebbe interessante sapere a distanza di tempo se ha avuto fortuna, come sta,  se ha un lavoro, se è ancora qui in Italia. Purtroppo il tema immigrazione è complesso e sembra che l' Italia sia in difficoltà nell' affrontarlo, forse anche a causa di una Europa un po' distratta. Non entro in merito, desiderando rimanere sulla storia di questa giovane ragazza eritrea, alla quale dedicai in quei giorni una semplice mia poesia, che qui pubblico.Qui riporto due brevi stralci di articoli di quei giorni:

Kebrat è scappata dall’Eritrea con un gruppo di amici. È scappata da un dittatore sanguinario che spedisce i dissidenti a lavorare in miniera come schiavi e ha trasformato l’antica colonia italiana in un carcere dove le guardie di frontiera sono autorizzate a sparare addosso ai fuggiaschi. Eppure Kebrat ce l’ha fatta. Ha attraversato il deserto del Sudan, prima a piedi e poi su un camion, e dopo due mesi inenarrabili ha raggiunto il porto libico di Misurata. Ha guardato il mare e la bagnarola che stava per salpare, senza neanche sapere dove l’avrebbero portata. L’importante era andare via. Ha consegnato i risparmi familiari di una vita allo scafista tunisino che si faceva chiamare The Doctor. E prima di partire ha indossato il vestito della festa. 

PALERMO  -  L'avevano ripescata nelle acque blu dell'Isola dei Conigli e per loro era ormai morta. Kebrat, invece, ha aperto gli occhi all'improvviso sulla banchina del porto di Lampedusa, quando già l'ultimo soccorritore aveva decretato che non c'era più nulla da fare per lei e aveva adagiato il suo corpo accanto ai cadaveri dei suoi compagni di viaggio. E invece lei ha vomitato acqua e nafta, ha annaspato col respiro, ha pianto e ha gridato "help". Fino a quando l'hanno sentita e si sono accorti che era ancora viva.

A qualcuno tra i soccorritori, questa ragazza eritrea di 24 anni, era apparsa incinta: come se in quella vita improvvisamente ritrovata se ne celasse un'altra. Solo quando in ospedale, a Palermo, dove è arrivata trasportata dall'elisoccorso le è stata fatta una ecografia si è scoperto che Kebrat non aspetta un bambino.

Stesa sulla barella che viene spinta di corsa verso la rianimazione Kebrat ripete con le lacrime agli occhi: "Ok, ok" e mostra da sotto il lenzuolo la mano sinistra con il pollice in su. Trema e i medici non la lasciano un attimo da sola. La confortano. Non è per niente tutto a posto. La prognosi è riservata per le gravi lesioni chimiche ai polmoni. Prima di entrare nel reparto di rianimazione, Kebrat riesce a rispondere ad alcune domande da dietro la mascherina dell'ossigeno con il suo inglese stentato.

A volte fatti e vicende di cronaca ci colpiscono duramente per la loro natura per oltrepassare la logica esistente in noi andando oltre percorrendo vie mentali a noi lontane. Lontane dal nostro credere, dal nostro percepire, dal nostro vivere quotidiano, dal nostro affanno nel programmare la vita. Invece i fattori non sempre controllabili che ci arrivano, comportano un modo quasi obbligato per affrontarli, ponendoci davanti a situazioni che possono mettere in discussione ciò che siamo o pensiamo d'essere. 
 
La giovane Kebrat, creduta morta dopo il naufragio e "resuscitata" mentre si trovava adagiata a terra tra corpi svuotati della vita, ci mette davanti al nostro egoismo o al nostro senso di accoglienza. Sta di fatto che accogliere è senz'' altro difficile, impegnativo, a volte pesante, a volte ci mette in discussione, ma credo che sia sempre meglio che abbandonare. A volte dovremmo scendere dal nostro egoismo e provare a pensare questo: " Se al posto suo, ci fossi io ?"
 
. Ecco, perché lo scorrere della vita, noi sappiamo cos'è ? Non è forse quella famosa ruota, ricordate ? La nostra storia non dovremmo dimenticarla, anzi dovremmo proprio partire da lì. Ricordare. Riconoscere il senso di aiutare, accogliere, imparare di guardare negli occhi e non sputare sentenze od offese, dal nostro comodo posto, senza il rispetto dovuto alla persona. Costa poco riconoscere il valore di essere persona. Kebrat, è una di quelle migliaia che arrivano qui, fuggendo da situazioni, dalle quali anche noi stessi fuggiremmo cercando un posto migliore, un paese migliore, una vita migliore, come facevano altri italiani che da qui fuggivano. Proviamo a pensarci.
 
 
 
Testo di: ROBERTO ROSSI
Scrittore, Poeta e Pitore

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